Mancano pochi mesi all’entrata in vigore dello strumento più innovativo e discusso della nuova pac: il greening. L’evocativo termine inglese si può tradurre nel meno affascinante “inverdimento”, ma la sostanza non cambia: in pratica da gennaio 2015 gli agricoltori italiani dovranno iniziare a fare i conti con delle nuove disposizioni che, assieme all’indiscusso beneficio ambientale, porteranno di sicuro un aumento delle complicazioni e degli adempimenti.

I requisiti del greening sono stati notevolmente

annacquati durante il negoziato per cui, oggi, si configura più come una “supercondizionalità”: un vero pagamento per comportamenti virtuosi. Rispetto alle proposte iniziali che vedevano un greening fortemente orientato all’agricoltura del Nord Europa, l’accordo finale rimedia ad alcune distorsioni, in particolare sulle colture permanenti (oliveti, vigneti, frutteti, agrumeti) che sono state escluse dai vincoli delle aree a valenza ecologica. L’obbligo del greening riguarda solo i seminativi, riso escluso. In questo articolo proviamo a dettagliare i punti cardine di questa misura, senza ambizioni di approfondire la tematica, che è estremamente complessa e in continuo aggiornamento.

Come sarà distribuito questo nuovo aiuto?

Iniziamo subito con il dire che l’adempimento delle disposizioni del greening è obbligatorio per tutti gli agricoltori che hanno diritto ai contributi pac. Il pagamento del greening si aggiunge come premio aggiuntivo al titolo per il pagamento di base disaccoppiato per ettaro di superficie agricola dichiarata nella domanda. Il contributo per il greening quindi verrà erogato soltanto agli agricoltori che dispongono di un proprio portafoglio titoli.

Il mancato rispetto comporta riduzioni sul pagamento supplementare e ulteriori sanzioni.

Tre pratiche obbligatorie

La misura prevede tre diverse pratiche obbligatorie:

  • diversificazione delle colture;
  • mantenimento del prato permanente;
  • costituzione delle aree di interesse ecologico (Efa)

Diversificazione. Questo obbligo prevede che l’azienda agricola debba praticare, sui propri terreni a seminativo, più colture nel corso della stessa annata agraria. Non va confusa con l’avvicendamento colturale, cioè l’alternanza di colture diverse sulla stessa parcella agricola in due annate successive.

In particolare, le aziende con superfici da 10 a 30 ha di seminativo, dovranno coltivare almeno due colture, e quella principale non potrà occupare più del 75% della superficie. Le aziende agricole con superficie a seminativo che supera 30 ha devono coltivare almeno tre diverse colture, dove le due principali insieme non possono occupare più del 95% della superficie. Un’azienda agricola con meno di 10 ettari di seminativo non è tenuta a rispettare l’obbligo della diversificazione, così come per le aziende agricole che conducono solo colture permanenti (frutteti, uliveti, vigneti e prati pascoli). (INSERIRE TABELLA)

Obbligo del mantenimento del prato permanente. Questa disposizione è “flessibile”: prevede cioè che gli siano gli Stati membri a designare delle zone sensibili sotto il profilo ambientale nelle quali imporre l’obbligo agli agricoltori di non convertire o arare tali colture. Inoltre, gli Stati membri devono fare in modo che la superficie complessiva a livello nazionale investita a prato permanente non diminuisca sopra al 5% rispetto al valore di riferimento iniziale. Qualora ciò si verifichi, lo Stato membro può obbligare determinate aziende agricole a riconvertire parte della superficie a prati e pascoli permanenti per ripristinare il livello nazionale. Quindi si individuano due tipologie di vincolo: un divieto assoluto di estirpazione, da applicarsi a livello di ciascuna azienda agricola, ma limitatamente a specifiche zone sensibili individuate dallo Stato membro, e una misura di salvaguardia, che si applica a livello nazionale, o regionale, soltanto nel caso in cui si dovesse verificare una sensibile riduzione della presenza dei prati e pascoli permanenti, in proporzione alla superficie agricola totale del Paese.

Costituzione delle aree di interesse ecologico. Si applica solo alle aziende agricole con superficie a seminativo superiore a 15 ettari. In tali casi, l’agricoltore è tenuto a costituire all’interno della propria azienda zone a valenza ecologica per almeno il 5% della superficie a seminativo. Qualora lo Stato membro ammetta la possibilità di considerare come area di interesse ecologico le fasce tampone, il bosco ceduo a rotazione rapida e le superfici imboschite con intervento pubblico (es. Psr), la percentuale del 5% va conteggiata sommando i seminativi a tale superficie.

Spetta agli Stati membri indicare quali caratteristiche devono possedere le superfici agricole per poter essere annoverate come aree di interesse ecologico, prendendo come riferimento un dettagliato elenco stilato nel regolamento di base sui pagamenti diretti. Nella pratica, ogni Stato membro potrà scegliere tra diverse soluzioni come i terreni lasciati a riposo, le fasce tampone, le superfici sottoposte a forestazione nell’ambito del psr, le superfici a bosco ceduo a rotazione rapida, le colture intercalari, le superfici con colture azotofissatrici.

Un paio di esempi pratici

Insomma, una delle principali critiche che si può fare al greening è che avrà effetti diversi in base all’applicazione geografica. Maggiore incidenza in termini numerici sulle aziende agricole del Nord, che dovranno diversificare i piani colturali e introdurre aree ecologiche sottraendo superfici alla produzione agricola, minor impatto nel Centro e Sud Italia, dove le dimensioni medie delle aziende sono generalmente inferiore a 10 ettari.

Per chiarire meglio le idee possiamo fare un esempio, adatto in particolare alla realtà agricola della Pianura Padana.

Prendiamo due aziende, la prima di 60 ha a seminativi, che fa già diversificazione colturale coltivando frumento tenero, mais e soia in parti uguali.

La seconda azienda, sempre di 60 ha, è un allevamento di suini da ingrasso con 2.000 capi. Qui si coltiva solo mais per il mangime. La prima azienda assolve già il primo requisito del greening ma, dato che non prevede foraggere permanenti, dovrà soddisfare il terzo requisito, cioè creare aree ecologiche. Dal 2015, quindi, l’azienda 1 dovrà sottrarre 3 ettari (5% della sau) da destinare a scopi ambientali. Fatti due conti, oggi eliminare 3 ettari di grano tenero significa rinunciare a circa 4.000 euro di plv.

L’azienda 2 è messa anche peggio: gli mancano due impegni obbligatori (tre colture diverse e togliere dalla produzione sempre 3 ha), quindi per il mais potrà destinare al massimo 45 ha, impegnando i restanti ad altre colture. Di questi 15 ettari almeno 3 ettari prenderanno la via dell’inverdimento, uscendo dalla superficie produttiva.

Rinunciare a 3 ettari di mais significa dire addio a circa 6.000 euro, inoltre dovrà comprare del mangime per i 2.000 maiali.

Insomma, sicuramente il greening peserà soprattutto sulle aziende zootecniche da carne dell’areale padano, quelle classiche da monocoltura di mais. Inoltre buona parte delle aziende del nord Italia, che mediamente possiede superfici superiori a 15 ha, dovranno rinunciare a coltivare una parte della propria superficie. Anche le aziende a monocoltura di grano duro, tipiche ad esempio del tavoliere delle Puglie, dovranno fare i conti con il greening, ma la dimensione medie, spesso sotto ai 10 ettari, gioca in un certo senso a loro favore.

Bibliografia

Le pratiche ecologiche del greening della nuova pac. L’Informatore Agrario n. 16-2014

Greening, allevatori più penalizzati. Terra e Vita n. 48-2013

Greening debole anche al Sud. Terra e Vita n. 1-2014

www.gruppo2013.it

www.agriregionieuropa.it

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